IL TRIBUNALE ORDINARIO DI LECCE 
                        Sezione prima penale 
 
    In composizione monocratica in persona del giudice dott.  Stefano
Sernia. 
    Sciogliendo la riserva formulata all'udienza  dibattimentale  del
giorno 13 settembre 2018 nel processo nei confronti di: 
        L.L., nato a ... il ... letti gli atti e sentite le parti, ha
pronunziato la seguente, 
 
                              Ordinanza 
 
    Si procede a  giudizio  ordinario  a  seguito  dell'emissione  di
decreto che ha disposto il giudizio immediato; l'imputato  e'  libero
ed assistito da difensore di fiducia; il pubblico ministero ha omesso
di depositare tempestivamente la propria lista  testi,  a  differenza
della difesa che ha chiesto di assumerne tre. 
    Sono pero' in atti il p.v. di arresto e quelli di perquisizione e
sequestro, dai quali  e'  possibile  desumere  le  generalita'  degli
ufficiali  di  polizia   giudiziaria   che   procedettero,   mediante
perquisizione domiciliare (eseguita al  di  fuori  dei  casi  di  una
percepita flagranza di reato), al rinvenimento e sequestro dei 22  gr
di marijuana per cui e' processo, di cui si assume la destinazione  a
finalita' di spaccio, atteso  che  in  locale  distinto  (rispetto  a
quello ove detta sostanza era conservata) vennero  rinvenuti  ritagli
circolari di  cellophane,  descritti  come  corrispondenti  a  quelli
formati ed utilizzati per realizzare gli involucri in  cui  custodire
la sostanza stupefacente destinata allo spaccio. 
    L'ascolto   dei   testi   della   difesa   dovra'   poi    essere
necessariamente seguito - secondo  la  logica  propria  sottesa  alla
verifica della responsabilita' dell'imputato - dall'esame  dei  testi
di  polizia  giudiziaria  che  eseguirono   la   perquisizione,   che
senz'altro si  appalesera'  assolutamente  necessario  alla  pienezza
della ricostruzione  dei  fatti  e  comunque  ai  fini  del  sostegno
all'ipotesi accusatoria. 
    Prima di procedere a disporre  l'ascolto  dei  testi  di  polizia
giudiziaria attivando i poteri di cui  all'art.  507  del  codice  di
procedura  penale,  occorre  tuttavia  interrogarsi  sulla  apparente
illiceita'  della  perquisizione  in  ordine  alla  quale  dovrebbero
deporre,  ed  alla  derivata  eventuale   inammissibilita'   di   una
deposizione avente ad oggetto  un'attivita'  della  cui  legittimita'
costituzionale appare da escludersi, a parere di  questo  giudicante,
la ricorrenza. 
    Premesso che dall'art. 382 del  codice  di  procedura  penale  si
evince che la situazione di  flagranza  e'  quella  che  si  presenta
allorche' la consumazione del reato cade sotto  la  percezione  degli
organi di polizia giudiziaria, ovvero questi rilevano  sulla  persona
del reo tracce altamente significative che egli abbia appena commesso
un delitto (cfr. ad esempio quanto statuito dalla nota sentenza Corte
di cassazione - sezioni unite n. 39131 del 24 novembre 2015,  che  ha
precisato che «E' illegittimo l'arresto in  fragranza  operato  dalla
polizia giudiziaria  sulla  base  delle  informazioni  fornite  dalla
vittima o da terzi nell'immediatezza  del  fatto,  poiche',  in  tale
ipotesi, non sussiste la condizione di "quasi  flagranza",  la  quale
presuppone la immediata ed  autonoma  percezione,  da  parte  di  chi
proceda all'arresto, delle tracce del reato e del  loro  collegamento
inequivocabile con l'indiziato»), va invece osservato che,  nel  caso
in oggetto, che l'eventuale  prova  di  accusa  poggerebbe  tutta  ed
esclusivamente sugli esiti della perquisizione  domiciliare  eseguita
dalla polizia giudiziaria fuori del caso della flagranza del reato  e
senza che siano esplicate  le  evidenze  (attuali  che  possano  aver
indotto al compimento di un atto, che gli  articoli  14  e  13  della
Costituzione vogliono essere del tutto eccezionale, e che  lo  stesso
art. 103 del decreto del  Presidente  della  Repubblica  n.  309/1990
vincola a precisi presupposti. 
    Si dice infatti, nei citati  pp.vv.  degli  atti  compiuti  dalla
polizia  giudiziaria,  che  questa  avrebbe  avuto  notizia,  da  non
precisata attivita' infoinvestigativa, che presso l'abitazione in uso
al L. venisse svolta attivita' di spaccio; si da' atto di aver svolto
un servizio di  osservazione,  che  non  aveva  condotto,  pero',  al
rilievo di alcuna attivita' anche solo sospetta; ciononostante si era
deciso di procedere  a  perquisizione  domiciliare,  dandone  notizia
telefonica al pubblico ministero, che non e' noto se abbia espresso o
meno un consenso preventivo. Non e' in atti - e non risulta quindi se
sia mai stata emessa - la convalida della perquisizione da parte  del
pubblico ministero. 
    Va quindi osservato che detta perquisizione non solo non e' stata
eseguita in flagranza di reato ai sensi dell'art. 352 del  codice  di
procedura penale (laddove la flagranza e' la  situazione  di  attuale
commissione del reato percepita dall'ufficiale di polizia giudiziaria
prima di procedere al compimento degli atti che la presuppongono), ma
anche senza rispettare  i  casi  di  cui  all'art.  103  decreto  del
Presidente della Repubblica n. 309/1990, atteso che: 
        a) il pubblico ministero e' stato  preventivamente  avvisato,
ma non solo non e' stata descritta alcuna situazione di necessita' ed
urgenza che non permettesse di ottenerne l'autorizzazione nelle forme
ordinarie di legge, ma neanche risulta se il pubblico ministero abbia
prestato un consenso orale alla perquisizione; 
        b) non e' documentato che  risultasse  alcuna  situazione  di
flagranza,  ne'  alcuna  altra  situazione  oggettiva   che   potesse
giustificare la convinzione che in quell'abitazione  fosse  in  corso
un'attivita' di spaccio  o  comunque  vi  venisse  detenuta  sostanza
stupefacente destinata allo spaccio. 
    Si pone quindi il problema della liceita' della  perquisizione  e
della utilizzabilita' dei suoi esiti; e della costituzionalita' della
disciplina in tal senso vigente, quale risultante del diritto vivente
nascente dalla monolitica giurisprudenza di legittimita', stabilmente
applicata anche in sede locale dal competente tribunale del riesame e
dalla corte di appello. 
    La questione e' gia' stata sollevata da questo stesso  magistrato
quale  GUP  con  ordinanza  emessa  in  data  5   ottobre   2017,   e
successivamente nuovamente e piu'  approfonditamente  articolata  con
ordinanza emessa, sempre in veste di GUP, all'udienza del 12 dicembre
2017, ed infine con ordinanza  resa  in  data  5  luglio  2018  quale
giudice del dibattimento; di tali ordinanza si riproducono in  questa
sede le argomentazioni. 
    Va invero premesso che l'imputato non e' gravato da precedenti in
materia di stupefacenti, e che le fonti confidenziali  -  laddove  in
questo   dovessero   consistere   le   risultanze   infoinvestigative
assolutamente non specificate - non  possono  essere  in  alcun  modo
utilizzate (argomenta ex articoli 273, 195, comma 7 e 203 del  codice
di procedura penale) per la prova dei fatti (ivi  compresa,  ex  art.
187 del codice di  procedura  penale,  la  prova  dei  fatti  da  cui
discende l'applicazione di norme processuali), sicche' - escluso  che
nella situazione scorta dalla polizia  giudiziaria  fosse  rilevabile
una situazione di flagranza di reato (tanto piu' una volta che si era
accertato  che  le  persone  uscite  presenti   presso   l'abitazione
dell'imputato  erano  chiaramente  maestranze  intente  a  lavori  di
ristrutturazione) - va altresi' ritenuto che  non  ricorressero  quei
fondati motivi che ex art.  103  del  decreto  del  Presidente  della
Repubblica   n.   309/1990   avrebbero   potuto    legittimare    una
perquisizione, apparendo inammissibile la tesi che  pretenda  che  il
giudice debba ritenere la sussistenza dei presupposti di  tali  atti,
solo  perche'  lo  affermi,  senza  alcuna  concreta  indicazione   o
spiegazione, la polizia giudiziaria. 
    Con le ordinanze con cui la questione e' gia' stata sollevata,  e
di cui si e' detto, si e' osservato, e qui si reitera, che invero, la
situazione di flagranza di reato, che evidentemente si e' manifestata
solo dopo la perquisizione, non puo' aver quindi svolto  la  funzione
di preventiva legittimazione di tale atto,  che  la  legge  ordinaria
(articoli 354 e 356 del codice di procedura penale) e  costituzionale
(articoli 13 e 14 della  Costituzione)  le  assegnano  in  deroga  al
principio  generale  per  cui  simili  atti,  limitando  la  liberta'
personale (e della inviolabilita' del domicilio per quel che  attiene
alla  perquisizione  domiciliare),  possono  essere   disposti   solo
dall'autorita' giudiziaria e nei casi e modi  previsti  dalla  legge;
allo stesso modo, un non meglio specificato «atteggiamento  sospetto»
non puo' valere a significare la  ricorrenza  di  un  fondato  motivo
atto, ai  sensi  dell'art.  103  del  decreto  del  Presidente  della
Repubblica n. 309/1990,  a  far  ritenere  il  possesso  di  sostanze
stupefacenti. 
    Cio'  premesso,  va  sottolineata  la  cautela  del   legislatore
costituzionale, che ha assegnato solo  all'autorita'  giudiziaria  il
potere di disporre atti di  perquisizione  ed  ispezione,  prevedendo
solo  in  via  eccezionale  quelli  (rectius  quello)  della  polizia
giudiziaria ed entro ambiti ben delimitati, fissati  dalla  legge,  e
con rispetto delle garanzie di liberta' della persona. 
    I limiti fissati dalla legge si atteggiano,  invero,  in  ragione
della previsione costituzionale che li assiste, come  invalicabili  e
di  stretta  interpretazione;  e   qualsiasi   interpretazione   che,
comunque, si risolva in  una  vanificazione  dei  limiti  posti  alla
polizia giudiziaria (ad  esempio,  impedendo  la  verifica  circa  il
rispetto di tali limiti; o stabilendo  l'irrilevanza  processuale  di
tali violazioni) o nella lesione - sia pure mediata - della  liberta'
personale, appare da rigettarsi. 
    Invero,  l'art.  13  della  Costituzione  (richiamato,  quanto  a
garanzie e forme ivi previste, dall'art.  14  della  Costituzione  in
tema di ispezioni, perquisizioni e sequestri  domiciliari)  prescrive
che ogni atto di limitazione della liberta' personale - tra  i  quali
annovera non solo l'arresto o il fermo, ma anche le  perquisizioni  e
le  ispezioni  personali  -   sia   riservato   ad   «atto   motivato
dell'autorita' giudiziaria e nei soli  casi  e  modi  previsti  dalla
legge»;  riserva  di  legge   e   di   provvedimento   dell'autorita'
giudiziaria, quindi, cui puo' derogarsi  solo  per  casi  eccezionali
previsti dalla legge, atteso che la  norma  prosegue  prevedendo  che
solo  «in  casi  eccezionali  di  necessita'  ed  urgenza,   indicati
tassativamente dalla legge, l'autorita' di  pubblica  sicurezza  puo'
adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro
quarantotto  ore  all'autorita'  giudiziaria  e,  se  questa  non  li
convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono  revocati  e
restano privi di ogni efficacia». 
    Ai  sensi  dell'art.  13  della  Costituzione,   il   legislatore
costituzionale accoglie e tutela la nozione di atti  di  «restrizione
della liberta'  personale»  in  un'accezione  particolarmente  ampia,
ricomprendente tutti i casi in cui la persona fisica di un  individuo
debba sottostare a qualsiasi forma di manipolazione  da  parte  degli
organi pubblici e farsi oggetto di una loro  attivita';  sono  quindi
atti di restrizione della liberta' personale non solo quelli  in  cui
la liberta' di movimento venga  limitata  impedendo  all'imputato  di
allontanarsi da un determinato luogo  istituzionalizzato  e  definito
(carcere; residenza), come e' nei casi dell'arresto o del  fermo,  ma
anche tutti quegli atti che comunque, nel rendere la  persona  fisica
oggetto di un'attivita'  altrui  anche  di  breve  durata,  per  quel
periodo di tempo ne  escludano  la  liberta'  di  allontanarsi  e  la
pongano in una condizione di soggezione alle altrui manipolazioni. 
    Ed invero, senz'altro va osservato che, con la sottoposizione  ad
atti  di  ispezione  e  perquisizione  personale,  si  realizza   una
limitazione della liberta' personale, non foss'altro perche'  per  il
compimento di tali  atti  la  persona  si  vede  limitata  nella  sua
liberta'  di  locomozione  e  volizione  perche'  assoggettata   alla
potesta' pubblica, costretta  a  sottoporsi  al  compimento  di  atti
invasivi (e potenzialmente anche  pesantemente  invasivi)  della  sua
sfera  personale  (o  domiciliare).  E'  quindi  per  tali   ragioni,
evidenzianti come il compimento di tali atti si ponga in  termini  di
concreta   lesione    di    diritti    costituzionali    fondamentali
dell'individuo, che, a garanzia  dell'effettivita'  della  tutela  di
tali diritti, il legislatore costituzionale stabilisce in primo luogo
che solo la legge puo' e deve indicare i casi ed i  modi  in  cui  e'
possibile procedere a tali atti,  riservando  inoltre  il  potere  di
disporli all'autorita'  giudiziaria,  che  puo'  adottarli  solo  con
provvedimento motivato. 
    I suddetti  diritti  sono  quindi  assistiti  -  a  sottolinearne
l'importanza nell'assetto democratico  dell'ordinamento  repubblicano
voluto dal legislatore costituzionale come fondato  sulla  tutela  di
quelle  liberta'  individuali  tendenzialmente  negate  o  fortemente
compresse dal precedente regime -  da  un  corredo  di  significative
cautele date  dalla  riserva  di  legge,  dalla  riserva  del  potere
giudiziario, dall'obbligo di provvedere con atto motivato. 
    Solo in casi eccezionali di necessita'  ed  urgenza,  che  spetta
alla legge indicare tassativamente, agli organi di pubblica sicurezza
(e cioe' alle Forze di polizia, che di  tali  compiti  sono  titolari
unitamente a quelli di polizia giudiziaria) e' attribuito  un  potere
di intervento, provvisorio e soggetto a perdere ogni effetto in  caso
di  mancata  convalida  da  parte  dell'autorita'   giudiziaria   con
provvedimento che, sebbene cio' non sia espressamente previsto  dalla
norma, deve ritenersi debba anch'esso essere motivato, dato  che  non
vi e' ragione di ritenere  che  il  legislatore  costituzionale,  per
l'ipotesi  di  particolare  delicatezza  costituzionale  data   della
convalida (la cui funzione e' verificare che la  polizia  giudiziaria
non abbia agito in tali delicatissime  materie  abusando  dei  propri
poteri, fuori dei casi in cui essi  sono  loro  riconosciuti),  abbia
voluto esonerare l'autorita' giudiziaria dalla necessita' di motivare
i propri provvedimenti (come peraltro previsto gia' in  via  generale
dall'art. 111, comma 6 della Costituzione). 
    Come si e' accennato, tali  garanzie  sono  estese  dall'art.  14
della Costituzione anche al caso  delle  perquisizioni,  ispezioni  e
sequestri domiciliari, giusta il richiamo che tale norma  opera  alle
garanzie prescritte (dall'art. 13 della Costituzione) per  la  tutela
della liberta' personale; caso  che  in  questo  caso  specifico  non
interessa, ma che si ritiene utile menzionare al fine di sottolineare
l'unitarieta' della visione del legislatore costituzionale in tema di
tutela di liberta' fondamentali della persona. 
    L'ipotesi principale ed originaria prevista dalla legge ordinaria
a legittimare l'intervento eccezionale delle  Forze  di  polizia,  e'
data dai casi di flagranza di reato, allorche' gli organi di  polizia
intervengono in un momento in cui il reato e' in corso di esecuzione,
o il reo, subito dopo la commissione del reato, ne  reca  indosso  le
tracce, o e' inseguito dalla  polizia,  dalla  persona  offesa  o  da
altri: casi di evidenza probatoria che, nel giudizio del legislatore,
rendono  meno  pericolosa  la   deroga   ai   poteri   dell'autorita'
giudiziaria (cfr. sul punto anche Corte di cassazione - sezioni unite
39131/2015 che ha anche statuito, in tale linea di pensiero,  che  la
c.d. quasi flagranza rileva  solo  in  quanto  le  Forze  di  polizia
abbiano assistito alla commissione del reato o  abbiano  direttamente
percepito le tracce del reato sulla persona del reo). 
    Non si e' mai dubitato che le ipotesi della flagranza  di  reato,
concorrendo  il  requisito  della  pericolosita'   dell'autore   come
segnalata  dalla  sua  personalita'  o  dalla  gravita'   del   reato
(pericolosita' e gravita' presunte nei casi del piu' gravi delitti di
cui all'art. 380 del codice di procedura penale, e da  valutarsi  nel
concreto nei casi di cui all'art. 381 del codice di procedura penale)
valgano ad  individuare  delle  ipotesi  generali  di  necessita'  ed
urgenza  tassativamente  ben  delineate,  in   cui   si   giustifichi
l'esercizio provvisorio dei poteri di arresto da parte della  polizia
giudiziaria; cosi', in relazione alla  gravita'  del  reato  (che  la
legge ancora all'entita' della pena o all'appartenenza a ben definite
tipologie di delitto), il pericolo di fuga appare altra situazione di
necessita' ed urgenza che legittimi l'esercizio del potere di fermo e
la conseguente restrizione della liberta' personale. 
    Allo stesso modo, senz'altro la flagranza del reato  integra  una
situazione di necessita' ed urgenza quanto agli atti di perquisizione
e  conseguente  sequestro  ad  opera   della   polizia   giudiziaria,
finalizzati ad acquisire al processo fonti di prova che altrimenti il
reo, sapendo di essere stato scoperto, provvederebbe verosimilmente a
distruggere o disperdere; sicche' anche gli articoli 352  e  354  del
codice  di  procedura  penale,  appaiono   rispettosi   del   dettato
costituzionale. 
    Sia per le perquisizioni e sequestri che per gli atti di  arresto
e fermo, la legge prevede poi la necessita' della convalida da  parte
dell'autorita' giudiziaria, con provvedimento motivato, ed il dettato
costituzionale e' rispettato. 
    Norme  speciali  hanno  ampliato  i  casi  in  cui  alla  polizia
giudiziaria  e'  consentito  procedere  ad  atti   di   ispezione   e
perquisizione. 
    Oltre all'ipotesi prevista dall'art. 4 della  legge  n.  152/1975
(che prevede la perquisizione  personale,  nei  casi  eccezionali  di
necessita'  ed  urgenza,  alla  ricerca  di  armi  e   strumenti   di
effrazione, nei confronti di soggetti la cui presenza o atteggiamento
non appaia  giustificabile  in  relazione  a  specifiche  o  concrete
circostanze di tempo o di luogo) e  dall'art.  41  del  TULPS  -  che
peraltro riguarda le perquisizioni domiciliari e non quelle personali
- per la ricerca di armi di cui, anche per indizio, la polizia  abbia
notizia dell'esistenza all'interno  di  locali  pubblici  o  privati,
quella piu' frequentemente ricorrente e' quella di cui all'art.  103,
commi 2 e 3 del decreto del Presidente della Repubblica  n.  309/1990
che disciplinano,  rispettivamente,  le  attivita'  di  controllo  ed
ispezione dei mezzi di  trasporto  e  dei  bagagli  e  degli  effetti
personali,  e  gli  atti  di  perquisizione  in  senso  stretto,  sia
domiciliari  che  personali;  in  tutti  tali  casi  e'  previsto  un
provvedimento di controllo da parte dell'autorita' giudiziaria, nella
specie il pubblico ministero, che assumera' le forme della  convalida
nel   caso   degli   atti   di   ispezione   controllo,   e    quello
dell'autorizzazione preventiva, anche orale telefonica, nei  casi  di
perquisizione (in verita', l'art. 4, legge n. 152/1975  prevede  solo
l'invio del verbale al  pubblico  ministero,  essendo  verosimilmente
apparsa implicita la necessita' della convalida, in base ai  principi
generali); solo per i casi di particolare necessita' ed  urgenza  che
non consentano di richiedere l'autorizzazione telefonica, la  polizia
puo' procedere ad atti di perquisizione senza  previa  autorizzazione
del  pubblico  ministero,   che   dovra'   comunque   successivamente
convalidare, se del caso, l'operato della polizia giudiziaria. 
    Invero, l'art. 103 del decreto del Presidente della Repubblica n.
309/1990 cosi' recita: 
    «2. Oltre a quanto previsto dal comma 1 (che riguarda ispezioni e
perquisizioni negli spazi doganali,  n.d.r.),  gli  ufficiali  e  gli
agenti di polizia giudiziaria, nel corso di operazioni di polizia per
la prevenzione e la repressione del  traffico  illecito  di  sostanze
stupefacenti  o  psicotrope,  possono  procedere  in  ogni  luogo  al
controllo e all'ispezione dei mezzi di trasporto, dei bagagli e degli
effetti personali quando hanno fondato motivo di ritenere che possano
essere rinvenute sostanze stupefacenti o psicotrope.  Dell'esito  dei
controlli e delle ispezioni e' redatto processo verbale  in  appositi
moduli,  trasmessi  entro  quarantotto  ore  al   procuratore   della
Repubblica il quale, se ne  ricorrono  i  presupposti,  li  convalida
entro le successive quarantotto ore. Ai  fini  dell'applicazione  del
presente  comma,  saranno   emanate,   con   decreto   del   Ministro
dell'interno di concerto con i Ministri della difesa e delle finanze,
le opportune norme di coordinamento  nel  rispetto  delle  competenze
istituzionali. 
    3. Gli ufficiali di polizia giudiziaria, quando ricorrano  motivi
di particolare necessita' ed urgenza che non consentano di richiedere
l'autorizzazione  telefonica  del  magistrato   competente,   possono
altresi' procedere a perquisizioni dandone notizia, senza  ritardo  e
comunque entro quarantotto ore, al procuratore  della  Repubblica  il
quale,  se  ne  ricorrono  i  presupposti,  le  convalida  entro   le
successive quarantotto ore.». 
    L'art.  103  del  decreto  del  Presidente  della  Repubblica  n.
309/1990, pertanto, legittima - nel corso di  operazioni  finalizzate
alla prevenzione e repressione dei reati in tema di stupefacenti - le
perquisizioni, anche  fuori  dei  casi  di  flagranza,  allorche'  la
polizia giudiziaria abbia «fondato motivo di ritenere»  (analogamente
alla «notizia anche per indizio» secondo quanto prescrive  l'art.  41
del TULPS in tema di perquisizioni domiciliari alla ricerca di  armi)
che taluno detenga sostanza stupefacente; con l'ulteriore  necessita'
dell'autorizzazione telefonica preventiva del pubblico  ministero  o,
ove l'urgenza non consenta di ricercarla, successiva comunicazione al
pubblico ministero e convalida ad opera dello stesso. 
    A parere di questo giudice, un'interpretazione di tutte le  norme
surrichiamate,   che   voglia   essere   rispettosa    del    dettato
costituzionale, impone che,  perche'  la  polizia  giudiziaria  possa
procedere  a  quegli  atti  limitativi  della  liberta'  personale  e
dell'inviolabilita' del domicilio, che sono gli atti di perquisizione
personale o domiciliare,  debba  ricorrere  un  requisito  minimo  di
comprovabilita' e verificabilita' della  ricorrenza  del  presupposto
all'esercizio del potere di  perquisizione  da  parte  della  polizia
giudiziaria: fuori  dei  casi  di  flagrante  detenzione  di  armi  o
stupefacenti, pertanto, sara'  necessario  che  di  tale  detenzione,
quale condizione legittimante la perquisizione da compiersi, dovranno
gia' esservi almeno indizi, sia pure semplici e  non  gravi;  ma  non
potra' procedersi al di sotto della soglia indiziaria,  espressamente
richiesta dall'art. 41 del TULPS, e la  cui  assenza  impedirebbe  il
concretizzarsi del «fondato motivo» di cui all'art. 103  del  decreto
del Presidente  della  Repubblica  n.  309/1990  o  la  condivisibile
valutazione di «ingiustificatezza» della presenza del perquisendo «in
relazione a specifiche o concrete circostanze di tempo  o  di  luogo»
prevista dall'art. 4 della legge n. 152/1975. 
    Una diversa interpretazione attribuirebbe, di fatto, alla polizia
giudiziaria  un  potere  insindacabile  di  procedere  ad   atti   di
perquisizione,  e  vanificherebbe   quindi   quei   limiti   che   la
Costituzione ha invece ritenuto necessari, sia pure  demandandone  la
determinazione alla legge ordinaria; e la legge ordinaria,  per  quel
che qui interessa, ha richiesto  che  la  polizia  giudiziaria  abbia
fondato motivo di ritenere che taluno detenga sostanza  stupefacente;
e l'esistenza di un indizio in tal senso deve necessariamente  essere
verificabile, posto che  altrimenti  si  attribuirebbe  alla  polizia
giudiziaria il potere di ledere ad libitum la  liberta'  personale  e
violare la vita privata e domiciliare della persona (in spregio anche
a quanto prescritto dall'art. 8 della Convenzione europea dei diritti
dell'uomo). 
    Ed invero, sviluppando ulteriormente l'argomento gia' svolto  con
le precedenti ordinanze di rimessione, va ritenuto  che  nel  disegno
costituzionale - che intende fondare  uno  stato  di  pieno  diritto,
retto dal principio di  legalita'  e  dalla  previsione  di  garanzie
giurisdizionali a verifica e controllo del modo e dei casi in cui  le
forze di polizia usino dei loro poteri, al fine di evitarne l'abuso -
non possano sussistere limiti alla verifica giurisdizionale suddetta.
Ammettere quindi che la polizia giudiziaria  possa  insindacabilmente
attestare la ricorrenza del fondato motivo o giustificato indizio, ad
esempio facendo riferimento a  fonti  asseritamente  non  rivelabili,
equivale a negare quel potere di verifica,  da  parte  dell'autorita'
giudiziaria, che la legge ordinaria e  la  Costituzione  ancor  prima
impongono debba sussistere. 
    Se cosi' non fosse, se si ammettesse (come non di rado la Suprema
corte  ha  affermato)  la  liberta'  della  polizia  giudiziaria   di
procedere a perquisizione  in  forza  di  un  mero  inverificabile  e
soggettivo sospetto, o di  un  asserito  «indizio»  che  non  dovesse
essere nemmeno specificato nella fonte (Corte di cassazione,  sezione
3, sentenza n. 19365 del 17 febbraio 2016, ad esempio, che e'  giunta
ad affermare che «Le perquisizioni che la  polizia  giudiziaria,  nel
caso di sospetto di illecita detenzione di sostanze stupefacenti,  e'
legittimata a compiere  in  forza  del  disposto  dell'art.  103  del
decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n.  309,  non
presuppongono necessariamente la commissione di un reato, ma  possono
essere effettuate sulla base di  notizie  confidenzialmente  apprese,
senza obbligo di avvertire la  persona  sottoposta  a  controllo  del
diritto all'assistenza di  un  difensore:  in  ogni  caso,  anche  se
effettuate  illegittimamente,  non  rendono  illegittimo  l'eventuale
sequestro dello stupefacente e delle altre cose pertinenti  al  reato
rinvenute  all'esito  della  perquisizione»),  si  impedirebbe   ogni
controllo giurisdizionale sulla legittimita' dell'agire della polizia
giudiziaria e sulla attendibilita' dei risultati della sua azione; si
vanificherebbe la previsione di inefficacia  contenuta  nell'art.  13
della  Costituzione;  si   contravverrebbe   di   fatto   al   regime
dell'utilizzabilita' delle prove (che  pacificamente  riguarda  anche
gli indizi) per come stabilito dalla legge (nella specie, l'art.  191
del codice di procedura penale, per quel che riguarda il  divieto  di
utilizzazione di prove acquisite in violazione di  un  divieto  posto
dalla legge); si vanificherebbe quindi (incentivandone le  violazioni
per l'inesistenza di sanzioni processuali  all'utilizzabilita'  degli
esiti   delle   perquisizioni)   la   tutela   costituzionale   della
inviolabilita'  del  domicilio;   si   realizzerebbe,   infine,   una
potenziale  lesione  della  liberta'  personale,  atteso  che  questa
verrebbe ad essere giurisdizionalmente limitata per  effetto  di  una
apparenza di flagranza di reato conseguente (e non preesistente) alla
perquisizione, senza che sia possibile  verificare  la  affidabilita'
della catena  indiziaria  che  ha  portato  all'emersione  di  quella
situazione di apparenza probatoria, la cui genuinita'  dovra'  quindi
essere assunta per atto di fede. 
    Pertanto, deve ritenersi, in via del tutto  conseguente,  che,  a
fondamento della ricorrenza di un indizio di detenzione delle armi  o
sostanze stupefacenti: 
        a)  non   possano   essere   utilizzate   fonti   anonime   o
confidenziali, perche' queste non sono in alcun modo verificabili dal
giudice, che verrebbe cosi'  privato  di  ogni  effettivo  potere  di
controllo circa la legittimita' dell'azione della polizia giudiziaria
e circa  l'affidabilita'  della  catena  indiziaria  che  porta  alla
perquisizione ed all'acquisizione dei  risultati  di  essa;  si  deve
sottolineare che cio' realizzerebbe una ingiustificata disparita'  di
trattamento,   con   conseguente   violazione   dell'art.   3   della
Costituzione, tra indagato perquisito  ed  altri  indagati,  rispetto
all'ordinario regime della prova, posto  che  fonti  confidenziali  e
fonti anonime sono in via generale inutilizzabili (cfr. articoli 273,
195, comma 7; 203, comma 1 del codice di procedura penale, che in via
generale prevedono l'inutilizzabilita' delle  deposizioni  de  relato
fondate su fonti  che  non  si  intenda  o  non  si  possa  indicare,
risolvendosi queste in  fonti  anonime  non  utilizzabili  come  gia'
previsto dall'art. 240 del codice di procedura penale, per il divieto
di utilizzazione dei  documenti  anonimi)  e  non  sussumibili  nella
nozione di indizio, che indica l'elemento di prova  non  univocamente
concludente ma utilizzabile, posto che per giurisprudenza pacifica ed
assolutamente condivisibile,  l'art.  191  del  codice  di  procedura
penale, si applica anche agli indizi; 
        b)  l'autorita'  giudiziaria  dovra'  poter  conseguentemente
verificare se l'elemento posto a  fondamento  della  «notizia»  circa
l'esistenza delle armi o delle sostanze stupefacenti  nei  locali  da
perquisire, abbia dignita' di indizio utilizzabile; in caso contrario
si avrebbe una violazione degli articoli 111 e 117 della Costituzione
(con  riferimento  all'art.  6  della  Convenzione  europea  per   la
salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo)  essendo  solo  apparente   la
possibilita'  di  godere  dell'esame  di  un  giudice  imparziale  ed
indipendente, laddove questo giudice non abbia un adeguato potere  di
verifica   delle   circostanze   costituenti   elementi   a    carico
dell'imputato. 
    Pertanto, in via del tutto conseguente, va altresi' ritenuto che,
a  fondamento  della  ricorrenza  di  un  indizio  di  detenzione  di
stupefacenti  o  armi,  ai  sensi  degli  articoli  103  decreto  del
Presidente della Repubblica n. 309/1990 e 41 del TULPS: 
        c)  non   possano   essere   utilizzate   fonti   anonime   o
confidenziali, perche' queste sono in via generale  inutilizzabili  e
non sussumibili nella nozione di indizio, che  indica  l'elemento  di
prova  non  univocamente  concludente,  ma  senz'altro   utilizzabile
perche' non vietato dalla legge; 
        d)  l'autorita'  giudiziaria  dovra'  poter  conseguentemente
verificare se l'elemento posto a fondamento  della  «notizia»  o  del
«ragionevole motivo di  ritenere»  circa  l'esistenza  delle  armi  o
stupefacenti,  sulla  persona  o  nei  locali  da  perquisire,  abbia
dignita' di indizio utilizzabile. 
    E' bene sottolineare che questo giudice ha sottolineato i profili
di possibile incostituzionalita' di interpretazioni che ammettano,  a
presupposto  degli  atti   di   perquisizione,   elementi   probatori
particolarmente  deboli  o  inutilizzabili,  al  solo  fine  di   far
risaltare l'importanza da riconoscersi  alla  tutela  della  liberta'
personale e dell'inviolabilita' del domicilio  e  come  tali  materie
siano uno dei punti qualificanti dell'effettivita' di  uno  stato  di
diritto, come disegnato dalla Costituzione e dalla CEDU,  in  cui  il
riconoscimento   di   diritti   fondamentali   della    persona    e'
necessariamente accompagnato dalla previsione di un giudice non  solo
imparziale ed  indipendente,  ma  anche  dotato  degli  strumenti  di
verifica  e  controllo  atti  ad  assicurarne   l'effettiva   tutela;
peraltro, in uno stato di diritto, lo Stato e di suoi organi sono per
primi vincolati  al  rispetto  delle  leggi  di  cui  pur  pretendono
l'osservanza da parte  dei  consociati,  e  cio'  comporta  non  solo
l'impegno a non violare tali leggi, ma anche a garantire  l'effettivo
rispetto dei diritti che tali leggi prevedono ed attribuiscono. 
    La giurisprudenza della Cassazione non e' univocamente  attestata
su posizioni come quella espressa  dalla  gia'  menzionata  Corte  di
cassazione, sezione 3,  sentenza  n.  19365  del  17  febbraio  2016,
essendo rinvenibili nella giurisprudenza di  legittimita'  anche  ben
piu' condivisibili pronunzie, quali ad esempio: 
        sezione 6, sentenza n. 40952  del  15  giugno  2017,  che  ha
statuito che «E' configurabile  l'esimente  della  reazione  ad  atti
arbitrari  del  pubblico  ufficiale  qualora   il   privato   opponga
resistenza ad un pubblico ufficiale che pretende di  eseguire  presso
il suo domicilio una perquisizione finalizzata, ai sensi dell'art.  4
della legge 22 marzo 1975, n. 152, alla ricerca di armi  e  munizioni
fondata su meri sospetti e non su dati oggettivi certi, anche solo  a
livello indiziario, circa la presenza delle suddette cose  nel  luogo
in cui viene eseguito l'atto (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto
immune da  vizi  la  mancata  convalida  dell'arresto  per  il  reato
previsto dall'art. 337 del codice penale,  all'imputato  per  essersi
opposto alla perquisizione disposta  dopo  la  contestazione  di  una
contravvenzione al codice stradale, senza che fossero  emersi  indizi
significativi circa  il  possesso  di  armi  o  di  oggetti  atti  ad
offendere)»; 
        sezione 6, sentenza n. 34450  del  22  aprile  2016,  che  ha
statuito che «Sulla base di una denuncia  anonima  non  e'  possibile
procedere a perquisizioni, sequestri e  intercettazioni  telefoniche,
trattandosi di atti che  implicano  e  presuppongono  l'esistenza  di
indizi di reita'. Tuttavia,  gli  elementi  contenuti  nelle  denunce
anonime possono stimolare  l'attivita'  di  iniziativa  del  pubblico
ministero e della  polizia  giudiziaria  al  fine  di  assumere  dati
conoscitivi, diretti a verificare se dall'anonimo  possano  ricavarsi
estremi utili per l'individuazione  di  una  "notitia  criminis"  (in
applicazione di  tale  principio,  la  Corte  ha  ritenuto  legittimi
l'attivita' di perquisizione ed il sequestro di un telefono cellulare
e  di  materiale  informatico  eseguiti  a  seguito  di  un'attivita'
investigativa, avviata sulla base di una denuncia anonima, nel  corso
della quale era emersa la pubblicazione in rete di  numerosi  post  a
contenuto  diffamatorio  pubblicati  mediante  l'account  creato  sul
social network facebook a nome dell'imputato, indagato  in  relazione
ai reati di cui agli articoli 278, 291 e 214 del codice penale); 
        sezione 6, sentenza n. 36003 del 21 settembre  2006,  che  ha
statuito che «Sulla base di una denuncia  anonima  non  e'  possibile
procedere a perquisizioni, sequestri e  intercettazioni  telefoniche,
trattandosi di atti che  implicano  e  presuppongono  l'esistenza  di
indizi di reita'. Tuttavia,  gli  elementi  contenuti  nelle  denunce
anonime possono stimolare  l'attivita'  di  iniziativa  del  pubblico
ministero e della  polizia  giudiziaria  al  fine  di  assumere  dati
conoscitivi, diretti a verificare se dall'anonimo  possano  ricavarsi
estremi utili per l'individuazione  di  una  "notitia  criminis"  (in
applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto che  la  polizia
giudiziaria aveva  legittimamente  proceduto  alla  perquisizione  di
un'autovettura e al conseguente sequestro di  sostanza  stupefacente,
dopo aver avviato, a seguito di una denuncia anonima, un'indagine sul
posto attraverso la quale aveva acquisito la notizia di reato)»; 
        sezione 5, ordinanza n. 37941 del  13  maggio  2004,  che  ha
statuito che: «Il decreto  di  perquisizione  e  sequestro  emesso  a
seguito di denuncia anonima, ed utilizzato come mezzo di acquisizione
di una "notitia criminis" e non come mezzo di ricerca della prova, e'
nullo. Infatti la  denuncia  confidenziale  o  anonima,  che  non  e'
inseribile  agli  atti  e  non  e'  utilizzabile,  non  puo'   essere
qualificata come una notizia di  reato  idonea  a  dare  inizio  alle
indagini  preliminari,  cosicche'  l'accusa  non  puo'  procedere   a
perquisizioni, sequestri ed intercettazioni telefoniche,  trattandosi
di atti che  implicano  e  presuppongono  l'esistenza  di  indizi  di
reita'». 
    Si rinvengono quindi una serie di pronunzie della Suprema  corte,
che a parere di questo giudicante rispondono pienamente  ai  principi
costituzionali  e  convenzionali  nella  individuazione  del  minimum
probatorio necessario  a  rendere  legittima  una  perquisizione;  di
talche' non puo' ritenersi la ricorrenza di un  diritto  vivente  che
imponga di denunziare l'illegittimita' costituzionale  delle  opposte
interpretazioni,   pur   non   assenti   nella   giurisprudenza    di
legittimita'. 
    Cio' che invece appare deficitario sotto il profilo dei  principi
costituzionali, nella giurisprudenza di legittimita', e'  il  rilievo
da assegnarsi all'illiceita' della  perquisizione,  sul  piano  della
valenza probatoria dei suoi esiti: valenza probatoria che comunemente
si ritiene permanga intatta, anche  nel  caso  di  una  perquisizione
eseguita in assenza di ogni presupposto di legittimita'. 
    Riprendendo  le  fila  del  discorso,  poiche'   all'atto   della
perquisizione cui venne  sottoposto  l'imputato  non  risultava  gia'
evincibile  una  situazione  di  flagranza,  ne'   nel   verbale   di
perquisizione e' specificato in cosa - a parte l'inutilizzabile fonte
confidenziale - consistessero gli elementi atti a definire l'imputato
come soggetto dedito allo spaccio, o comunque atti a  significare  la
presenza  di  sostanze   stupefacenti,   destinate   alla   cessione,
nell'abitazione  dell'imputato,   quella   compiuta   dalla   polizia
giudiziaria si manifesta come una perquisizione  domiciliare  abusiva
perche' assolutamente ingiustificata - in base al  giudizio  ex  ante
che  deve  presiedere  ad  ogni  valutazione  circa  la  legittimita'
dell'operato  della  polizia  giudiziaria  in  tutti  gli  atti   che
interferiscono  con  l'esercizio   di   liberta'   costituzionalmente
tutelate - e compiuta al di fuori di una situazione di flagranza. 
    Tali attivita' di perquisizione ed ispezione, inoltre, sono state
convalidate dal pubblico ministero con un provvedimento assolutamente
immotivato, stante l'assoluta apoditticita' della formula  utilizzata
(«ritenuto che la perquisizione ed il  sequestro  sono  avvenuti  nei
casi e  nei  termini  consentiti  dalla  legge»),  che  pertanto  non
permette di rilevare (e valutare) in base a quali ragioni il pubblico
ministero abbia ritenuto  legittimamente  esercitato  il  potere  che
l'art. 13 della Costituzione vuole limitato  ai  casi  tassativamente
previsti dalla legge e del tutto eccezionale e, in quanto  limitativo
della liberta' personale (come gia' si  e'  notato  l'art.  13  della
Costituzione  assegna  tale  natura  agli   atti   di   ispezione   e
perquisizione  personali)  sottoposto  a   convalida   dell'autorita'
giudiziaria,  sotto  espressa  pena  di  inefficacia  assoluta  degli
effetti  dell'atto  illegittimo  (cfr.  art.  13,   comma   3   della
Costituzione). 
    Non ricorrendo le ipotesi della  flagranza  o  le  altre  ipotesi
previste da leggi speciali che  a  tanto  facultizzino  le  Forze  di
polizia, deve ritenersi che gli atti di  perquisizione,  ispezione  e
sequestro da queste eseguiti siano stati compiuti in violazione di un
divieto, derivante dalla generale riserva  di  tali  atti  alla  sola
autorita' giudiziaria; la conseguenza,  in  base  a  quanto  previsto
dall'art. 191  del  codice  di  procedura  penale,  che  sancisce  la
inutilizzabilita' delle prove vietate dalla  legge,  dovrebbe  quindi
essere la inutilizzabilita' degli esiti di detta perquisizione; ma la
giurisprudenza della Suprema corte, come meglio oltre  si  dira',  e'
assolutamente   di   segno   contrario,   nonostante   la    sanzione
dell'inutilizzabilita' sembri emergere gia' direttamente a livello di
previsione costituzionale. 
    Come si e' detto, gli articoli 13 e 14  della  Costituzione  (che
infatti  richiama  le  garanzie  dell'art.  13  della   Costituzione)
prevedono che «in casi eccezionali di necessita' ed urgenza, indicati
tassativamente dalla legge, l'autorita' di  pubblica  sicurezza  puo'
adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro
quarantotto  ore  all'autorita'  giudiziaria  e,  se  questa  non  li
convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono  revocati  e
restano privi di orni efficacia»; cio' comporta, a parere  di  questo
giudice,  che  gli  atti  di  ispezione,  perquisizione  e  sequestro
abusivamente compiuti dalla polizia giudiziaria o  non  motivatamente
convalidati dall'autorita' giudiziaria rimangano senza effetto  anche
sul piano probatorio; la legge ordinaria ha  quindi  dato  attuazione
alla  previsione  costituzionale,  prevedendo  casi   tassativi   per
l'esercizio dei poteri di arresto, fermo, perquisizione, ispezione  e
sequestro da parte delle Forze di polizia, ed ha  introdotto  in  via
generale,  con  l'art.  191  del  codice  di  procedura  penale,   la
previsione  della  inutilizzabilita'   delle   prove   acquisite   in
violazione di un divieto di legge; come pero' si vedra',  il  diritto
vivente quale  discendente  dalla  monolitica  interpretazione  delle
norme di legge (in particolare, proprio dell'art. 191 del  codice  di
procedura   penale)   dettate   a   sanzione   di   inutilizzabilita'
dell'assunzione di prove vietate dalla legge, non assegna conseguenze
di inutilizzabilita' agli  esiti  delle  perquisizioni  ed  ispezioni
compiute dalle Forze di polizia fuori dei casi in cui la legge glielo
consente; con il prevedere l'utilizzabilita' probatoria del corpo  di
reato e delle cose  pertinenti  al  reato  acquisite  grazie  a  tali
perquisizioni ed ispezioni, anche se avvenute  in  violazione  di  un
divieto, la  giurisprudenza  della  Suprema  corte  (vero  e  proprio
diritto vivente, stante la sua monoliticita'),  a  parere  di  questo
giudice, vanifica le  garanzie  costituzionali,  dando  luogo  ad  un
diritto vivente che si pone in contrasto con esse, come meglio  oltre
si dira'. 
    A prescindersi poi dalla gia' chiara lettera dell'art. 13,  comma
3 della Costituzione,  gia'  le  ordinarie  disposizioni  processuali
dovrebbero    condurre    al    risultato    interpretativo     della
inutilizzabilita' degli esiti  della  perquisizione  illegittima,  in
presenza di una norma,  come  l'art.  191  del  codice  di  procedura
penale, che sanziona con l'inutilizzabilita' le  prove  acquisite  in
violazione di un divieto di legge. 
    Nel  caso  in  oggetto  non  rileva   la   questione   circa   la
inadeguatezza costituzionale della norma, nella parte in cui  prevede
la   idoneita'   della   autorizzazione   telefonica   orale    senza
espressamente prevedere  la  necessita'  di  una  sua  documentazione
successiva  con  motivazione  che  soddisfi  i  requisiti  di   forma
richiesti dall'art. 13 della Costituzione; ed  invero,  nel  caso  in
oggetto e' presente una convalida scritta, apposta in calce  al  p.v.
di perquisizione, che si risolve  unicamente  e  semplicemente  nella
formula «si convalida» seguita da  data  e  firma  e  priva  di  ogni
motivazione. 
    Compiuta   tale    preliminare    ricognizione    delle    norme,
costituzionali e di legge  ordinaria,  che  disciplinano  la  materia
delle perquisizioni personali e domiciliari,  deve  quindi  ribadirsi
che le prove a carico dell'imputato consistono di  quanto  rinvenuto,
nella sua abitazione a seguito di una perquisizione domiciliare al di
fuori dei casi e modi previsti dalla legge, atteso che ne'  ricorreva
una percepitile situazione di flagranza del  reato,  ne',  come  gia'
detto, risulta ricorressero i presupposti di  cui  all'art.  103  del
decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990. 
    Invero, se quanto operato dalla polizia giudiziaria a limitazione
della liberta'  personale  (e  di  quella  domiciliare,  per  effetto
dell'estensione che ad essa opera l'art. 14 della Costituzione  delle
garanzie previste per  la  persona)  e'  sottoposto,  per  previsione
costituzionale,  a  verifica  e  controllo  da  parte  dell'autorita'
giudiziaria,   che   per   convalidarne   l'operato   deve   emettere
provvedimento motivato, cio' implica necessariamente che  la  polizia
giudiziaria debba dare atto degli specifici elementi valutati  e  che
l'hanno indotta a  ravvisare  un  «fondato  motivo  di  ritenere  che
possano  essere  rinvenute  sostanze  stupefacenti   o   psicotrope»;
qualsiasi diversa interpretazione che  legittimasse  l'operato  della
polizia giudiziaria sulla base di elementi da essa  indicati  in  via
del tutto  generica  ed  astratta,  si'  da  impedirne  una  concreta
valutazione, sarebbe necessariamente da ritenersi incostituzionale. 
    Cio' detto, in forza di quanto previsto dagli articoli  13  e  14
della Costituzione, quanto  illegittimamente  operato  dalla  polizia
giudiziaria cio' dovrebbe condurre  all'inutilizzabilita'  probatoria
degli esiti della perquisizione e del sequestro, in  quanto,  essendo
stata la perquisizione eseguita fuori dei casi e modi  tassativamente
previsti dalla legge e non  convalidata  con  provvedimento  motivato
dell'autorita' giudiziaria, detti atti, in forza di  quanto  previsto
dalle suddette norme costituzionali, «si intendono revocati e restano
privi di ogni efficacia»: con linguaggio  la  cui  chiarezza  non  e'
stata finora adeguatamente apprezzata, il legislatore  costituzionale
aveva cioe' chiaramente introdotto la sanzione dell'inutilizzabilita'
degli  esiti  degli  atti  di  polizia  giudiziaria  illegittimamente
invadenti la sfera della liberta' personale. 
    Ed invero, la sanzione delle «revoca e perdita di ogni efficacia»
e' dalla norma costituzionale assegnata  non  solo  alla  illegittima
esecuzione di  atti  di  arresto  o  di  fermo,  ma  genericamente  e
complessivamente  al  caso  dell'adozione  dei   «provvedimenti»   di
polizia, in materia di liberta' personale, fuori  dei  casi  previsti
dalla legge; e -  a  meno  di  voler  affermare  che  il  legislatore
costituzionale abbia impiegato con imprecisione e  scarsa  padronanza
la lingua italiana - i provvedimenti in  questione  non  possono  non
essere che tutti quelli contemplati  dalla  norma  stessa,  e  quindi
anche le ispezioni e le perquisizioni personali, che l'art. 13  della
Costituzione tutti ricomprende nell'ambito degli atti che limitano la
liberta' personale. Non appare quindi corretta l'interpretazione  che
voglia  limitare  la  previsione  costituzionale  della  «perdita  di
efficacia»  ai  soli   provvedimenti   soppressivi   della   liberta'
personale, quali l'arresto ed il fermo, atteso che  l'art.  13  della
Costituzione utilizza una formula omnicomprensiva  (i  «provvedimenti
provvisori» adottabili dalla  polizia  giudiziaria)  che  a  tutti  i
provvedimenti da detta  norma  contemplati  risulta  riferirsi,  come
evincibile  anche  dalla  disciplina  adottata  dall'art.  14   della
Costituzione, che espressamente li richiama «nominatim»  («ispezioni,
perquisizioni o sequestri»)  prevedendone  l'adottabilita'  da  parte
della polizia giudiziaria «secondo  le  garanzie  prescritte  per  la
tutela della liberta' personale». 
    Cio' precisato, va osservato che l'unica efficacia perdurante nel
tempo (e  di  cui  la  norma  costituzionale  si  e'  preoccupata  di
prevedere la cessazione), che puo' ipotizzarsi rispetto  ad  atti  di
perquisizione o ispezione che siano gia' stati compiuti  e  terminati
nella loro esecuzione  (come  e'  necessariamente,  dato  che  ne  e'
prevista la convalida entro 96 ore al massimo dalla loro esecuzione),
e' solo  quella  che  attiene  alla  loro  capacita'  probatoria;  la
sanzione di perdita dell'efficacia  equivale  quindi  a  quella,  nel
linguaggio del codice di procedura  repubblicano,  quarant'anni  dopo
l'approvazione della Costituzione, dell'inutilizzabilita'  introdotta
dall'art. 191 del codice di procedura penale, per le prove assunte in
violazione di un divieto di legge. 
    E' bene precisare che l'art. 13 della Costituzione riconnette  la
conseguenza delle perdita di efficacia degli atti  di  polizia,  alla
circostanza  che  essi   non   vengano   convalidati   dall'autorita'
giudiziaria  in  un  termine  dato;   ma   la   ratio   della   norma
costituzionale  sarebbe  senz'altro  frustrata  se  la  convalida  si
risolvesse in una pura forma non esprimente  un  effettivo  controllo
circa la legalita'  dell'atto  di  polizia  giudiziaria;  di  qui  la
prescrizione (a parere di  questo  giudice  evincibile  dal  comma  2
dell'art. 13 della Costituzione,  come  si  e'  gia'  osservato)  che
l'atto di convalida debba essere motivato, poiche'  e'  solo  con  un
atto avente tali caratteristiche che  l'art.  13  della  Costituzione
consente che l'autorita' giudiziaria incida sulla liberta' personale:
e non  avrebbe  senso  prevedere  la  necessita'  dell'atto  motivato
allorche' l'autorita' giudiziaria, titolare in via ordinaria di  tale
potere, proceda  di  sua  iniziativa,  e  non  gia'  allorche'  debba
verificare che la polizia giudiziaria non abbia  esorbitato  dai  (od
addirittura abusato dei) casi del tutto eccezionali in cui  la  legge
le concede di intervenire in materia di liberta' personale. 
    E' quindi ovvio che, nel sistema  delineato  dall'art.  13  della
Costituzione,  la  convalida  operi  in  quanto  espressione  di   un
effettivo potere di verifica in ordine alla concreta  ricorrenza  dei
presupposti legali di esecuzione della perquisizione  personale  (non
e' un caso, ad esempio, che  lo  stesso  art.  103  del  decreto  del
Presidente della Repubblica n. 309/1990  prevede,  come  peraltro  e'
ovvio, che l'autorita' giudiziaria convalidera' la perquisizione «ove
ne  ricorrano  i  presupposti»),  e  non  sia  sufficiente  un   mero
provvedimento   di   convalida   assolutamente   immotivato   e   non
riconducibile ad una  situazione  di  concreta  ravvisabilita'  della
situazione legittimante la perquisizione personale:  situazione  che,
nel vigente sistema, e' data fondamentalmente dalla ricorrenza  della
flagranza del  reato  o  dalla  ricorrenza  di  fondate  ragioni  che
inducano a ritenere che sia in corso l'esecuzione di  un  delitto  in
materia di stupefacenti o armi (con riferimento alle due norme -  gli
articoli 103 del decreto del Presidente della Repubblica n.  309/1990
e 41 del TULPS - legittimanti la  perquisizione  fuori  dei  casi  di
flagranza, di maggiore rilevanza statistica). 
    Peraltro, non solo le norme nazionali, costituzionali e di  legge
ordinaria,  impongono  che   la   polizia   giudiziaria   proceda   a
perquisizioni solo nei casi tassativamente stabiliti dalla  legge,  e
che il loro operato sia sottoposto ad un effettivo controllo da parte
dell'autorita' giudiziaria. 
    Infatti, a proposito della necessita' di una valutazione concreta
e  condivisibile  da  parte  dell'autorita'  giudiziaria,  circa   la
ricorrenza di ragioni  adeguatamente  giustificatrici  dell'esercizio
del potere di perquisizione,  va  anche  richiamata,  per  l'assoluta
importanza  della  fonte,  che   assegna   alla   decisione   rilievo
costituzionale ex art. 117 della Costituzione, la sentenza  16  marzo
2017, Modestou c. Grecia, con la quale la Corte europea  dei  diritti
dell'uomo (d'ora in  poi  per  brevita'  CEDU)  ha  ritenuto  essersi
verificata violazione dell'art. 8 CEDU, in un caso in cui  era  stata
eseguita perquisizione presso il domicilio personale e  professionale
del ricorrente senza alcun controllo giurisdizionale ex ante e  sulla
scorta di  un  mandato  di  perquisizione  generico;  ne'  era  stato
previsto un immediato controllo giurisdizionale ex post,  considerato
che la Corte d'appello,  adita  dal  ricorrente,  aveva  respinto  la
doglianza non  solo  piu'  di  due  anni  dopo  la  perquisizione  in
questione,  ma  nemmeno  indicando  neppure  i  motivi  «rilevanti  e
sufficienti» giustificativi della perquisizione: sentenza dalla quale
si trae quindi conferma che l'autorita' giudiziaria debba operare una
illustrazione  motivata  (e  condivisibile)   delle   ragioni   della
perquisizione,  al  fine  di  rendere  verificabile  la  legittimita'
dell'esercizio del relativo potere; statuizione che, se vale  per  le
perquisizioni autorizzate dall'autorita' giudiziaria, deve a  maggior
ragione  valere  per  quelle  operate  direttamente   dalla   polizia
giudiziaria   e   successivamente   convalidate    dalla    autorita'
giudiziaria. 
    Poiche' quindi e' ad un provvedimento adeguatamente motivato  che
l'art. 13 della Costituzione  ricollega  la  salvezza  degli  effetti
dell'operato della polizia giudiziaria, ne consegue che,  sebbene  le
nullita' degli atti per difetto  di  motivazione  siano  generalmente
rilevabili ad  eccezione  di  parte,  in  questo  caso  debba  invece
ritenersi che la ricorrenza di un  atto  di  convalida  adeguatamente
motivato, nella sua funzione costituzionale di salvezza degli effetti
dell'atto di polizia giudiziaria, sia un elemento  della  fattispecie
«sanante» la cui ricorrenza debba essere verificata d'ufficio;  cosi'
come dovra' verificarsi che, a prescindere  da  quanto  eventualmente
affermato col provvedimento di convalida (si pensi ad esempio al caso
di una motivazione non aderente  ai  dati  fattuali  emergenti  dagli
atti; o che da questi tragga conclusioni  assolutamente  illogiche  o
non giustificate), ricorressero effettivamente i presupposti  perche'
la polizia giudiziaria esercitasse i suoi poteri previsti in via  del
tutto eccezionale (sul punto, relativo alla portata dell'art. 191 del
codice di procedura penale, si dira' meglio oltre). 
    Tanto  premesso,  va  peraltro  preso   atto   che   tali   esiti
epistemologici  sono  estranei  alla  interpretazione  accolta  dalla
giurisprudenza   assolutamente   dominante   che,    a    far    data
dall'insegnamento  espresso  dalle  sezioni  unite  della  Corte   di
cassazione con la sentenza 5021 del 27 marzo  1996,  ha  ritenuto  la
piena utilizzabilita' probatoria degli esiti  delle  perquisizioni  e
sequestri eseguiti dalla polizia giudiziaria al  di  fuori  dei  casi
previsti dalla legge,  pur  prendendo  le  mosse  da  statuizioni  di
principio di segno apparentemente opposto alle conclusioni finali. 
    In realta', con la suddetta  sentenza,  le  sezioni  unite  della
Suprema corte di cassazione hanno in primo luogo affermato  a  chiare
lettere che la conseguenza di un'attivita' di  illecita  acquisizione
della prova, nello specifico una perquisizione illegittima, non  puo'
limitarsi a mere sanzioni amministrative, disciplinari o  penali  nei
confronti   dell'autore    dell'illecito,    ma    deve    comportare
l'inutilizzabilita'  della  prova  stessa,  statuendo  che:  «non  e'
certamente difficile riconoscere che  allorquando  una  perquisizione
sia stata effettuata senza l'autorizzazione del magistrato e non  nei
"casi" e nei  "modi"  stabiliti  dalla  legge,  cosi'  come  disposto
dall'art. 13 della Costituzione, si e' in presenza  di  un  mezzo  di
ricerca della prova che non e' piu' compatibile  con  la  tutela  del
diritto di  liberta'  del  cittadino,  estrinsecabile  attraverso  il
riconoscimento dell'inviolabilita'  del  domicilio.  L'illegittimita'
della ricerca di una prova,  pur  quando  non  assuma  le  dimensioni
dell'illiceita' penale (cfr. art. 609 del codice  penale),  non  puo'
esaurirsi nella mera ricognizione positiva dell'avvenuta lesione  del
diritto soggettivo, come presupposto per l'eventuale applicazione  di
sanzioni amministrative o penali per colui o per coloro che  ne  sono
stati gli autori. La  perquisizione,  oltre  ad  essere  un  atto  di
investigazione diretta, e' il mezzo piu' idoneo per la ricerca di uno
prova  preesistente  e,  quindi,  diviene  partecipe  del   complesso
procedimento  acquisitivo  della  prova,   a   causa   del   rapporto
strumentale che si pone tra la ricerca e la scoperta di cio' che puo'
essere necessario o utile ai  fini  della  indagine:  nessuna  prova,
diversa da  quelle  che  possono  formarsi  soltanto  nel  corso  del
procedimento, potrebbe  essere  acquisita  al  processo  se  una  sua
ricerca non sia  stata  compiuta  e  questa  non  abbia  avuto  esito
positivo. 
    Se e' vero che una perquisizione, quale mezzo di ricerca  di  una
prova, non puo' essere a quest'ultima assimilata e, quindi, e' di per
se'  stessa  sottratta  alla   materiale   possibilita'   di   essere
suscettibile di una diretta utilizzazione  nel  processo  penale,  e'
altrettanto vero che il rapporto funzionale che  avvince  la  ricerca
alla scoperta non puo' essere fondatamente escluso. 
    Ne consegue che il rapporto tra perquisizione e sequestro non  e'
esauribile  nell'area  riduttiva  di  una   etera   consequenzialita'
cronologica, come si era affermato in  numerose  pronunce  di  questa
Corte prima dell'entrata in vigore  del  nuovo  codice  di  procedura
penale, e com'e' stato, anche in  epoca  successiva,  qualche  volta,
ribadito (cfr. sezione 1 - 17 febbraio 1976 ric.  Cavicchia;  sezione
VI - 23 gennaio 1973 ric. Ferraro; sezione V - 24 novembre 1977  ric.
Manussardi; sezione 1 -15 marzo 1984 ric. Zoccoli; sezione  VI  -  24
aprile 1991 ric. Lione; sezione V - 12 gennaio  1994  ric.  Vetralla,
etc): la perquisizione non e' soltanto l'antecedente cronologico  del
sequestro, ma rappresenta lo strumento giuridico che rende  possibile
il ricorso al sequestro.». 
    Proseguiva inoltre la Corte osservando che, pur vero  che  esista
una distinzione concettuale tra  la  perquisizione,  quale  mezzo  di
ricerca della prova, ed il sequestro quale strumento di  acquisizione
della  prova,  cio'  non  ha   alcuna   rilevanza   ai   fini   della
inutilizzabilita' della prova acquista a seguito di una perquisizione
illegittima, atteso che: 
        «la  stessa  utilizzabilita'  della  prova  e'   pur   sempre
subordinata alla esecuzione di un legittimo procedimento  acquisitivo
che si sottragga, in ogni  sua  fase,  a  quei  vizi  che,  incidendo
negativamente sull'esercizio di  diritti  soggettivi  irrinunciabili,
non  possono  non  diffondere  i  loro  effetti  sul  risultato  che,
attraverso quel procedimento, sia stato conseguito.  Del  resto,  non
puo' neppure ignorarsi che e' lo stesso  ordinamento  processuale  ad
aver riconosciuto il rapporto funzionale esistente tra  perquisizione
e sequestro: l'art. 252 del codice di  procedura  penale,  impone  il
sequestro delle «cose rinvenute  a  seguito  della  perquisizione»  e
l'art. 103, comma VII  dello  stesso  codice  espressamente  sancisce
l'inutilizzabilita' dei  risultati  delle  perquisizioni  allorquando
queste sono state eseguite in violazione delle  particolari  garanzie
di cui debbono fruire i difensori per poter  esercitare  congruamente
il diritto di difesa. E non si vede  perche'  a  diverse  ed  opposte
conclusioni dovrebbe pervenirsi quando una  perquisizione  sia  stata
comunque eseguita in violazione di particolari disposizioni normative
che assicurano,  in  concreto,  l'attuazione  di  quella  ineludibile
garanzia costituzionale, nei limiti in cui essa e' stata riconosciuta
dall'art. 13, comma 2° della Costituzione: si tratta pur sempre di un
procedimento acquisitivo della prova che reca l'impronta  ineludibile
della subita lesione ad un diritto soggettivo, diritto  che,  per  la
sua rilevanza costituzionale, reclama e giustifica la  piu'  radicale
sanzione  di  cui  l'ordinamento   processuale   dispone,   e   cioe'
l'inutilizzabilita' della prova cosi'  acquisita  in  ogni  fase  del
procedimento.». 
    Il prosieguo della statuizione della Suprema corte  si  risolveva
peraltro nella vanificazione della portata pratica di  tali  principi
appena  enunciati;  continuava  infatti  detta  sentenza   affermando
comunque valido il sequestro, perche' atto dovuto,  allorche'  avesse
ad oggetto il corpo del reato o cose pertinenti al reato;  di  fatto,
l'unico sequestro che sarebbe stato inutilizzabile a fini  probatori,
sarebbe stato quello gia' di per se' inutile e che non avrebbe quindi
comunque dovuto essere disposto, perche' non relativo  ne'  al  corpo
del reato, ne' a cose  pertinenti  al  reato;  affermava  infatti  la
Suprema corte a sezioni unite: 
    «Orbene, se e' vero  che  l'illegittimita'  della  ricerca  della
prova  del  commesso  reato,   allorquando   assume   le   dimensioni
conseguenti ad uno palese violazione delle norme poste a  tutela  dei
diritti  soggettivi  oggetto  di  specifica  tutela  da  parte  della
Costituzione, non puo', in linea  generale,  non  diffondere  i  suoi
effetti invalidanti sui risultati che quella ricerca ha consentito di
acquisire,  e'  altrettanto  vero  che  allorquando  quella  ricerca,
comunque effettuata, si  sia  conclusa  con  il  rinvenimento  ed  il
sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, e' lo
stesso ordinamento processuale a considerare del tutto irrilevante il
modo con il quale a  quel  sequestro  si  sia  pervenuti:  in  questa
specifica ipotesi, e ancorche' nel contesto  di  una  situazione  non
legittimamente creata, il sequestro rappresenta un "atto dovuto",  la
cui omissione esporrebbe  gli  autori  a  specifiche  responsabilita'
penali,  quali  che  siano   state,   in   concreto,   le   modalita'
propedeutiche e funzionali  che  hanno  consentito  l'esito  positivo
della ricerca compiuta. 
    Con cio' non si  intende  affatto  affermare  che  l'oggetto  del
sequestro, a causa della sua intrinseca  illiceita',  ovvero  per  il
rapporto strumentale che esso puo' esprimere in  relazione  al  reato
commesso,  possa,  per  cio'  solo,  dissolvere  quella   connessione
funzionale   che   lega   la   perquisizione   alla    scoperta    ed
all'acquisizione di  cio'  che  si  cercava,  ma  si  vuole  soltanto
precisare che allorquando ricorrono le condizioni previste  dall'art.
253, comma 1 del codice di procedura penale, gli aspetti  strumentali
della ricerca, pur rimanendo partecipi del  procedimento  acquisitivo
della prova, non possono mai paralizzare l'adempimento di un  obbligo
giuridico che trova la  sua  fonte  di  legittimazione  nello  stesso
ordinamento  processuale  ed  ha  una  sua  razionale  ed   appagante
giustificazione nell'esigenza che l'ufficiale di polizia  giudiziaria
non si sottragga all'adempimento dei doveri indefettibilmente  legati
al suo «status», qualunque sia la situazione - legittima o  no  -  in
cui egli si trovi ad operare». 
    Concludevano quindi le sezioni unite osservando che gli agenti di
polizia giudiziaria avrebbero poi  potuto  testimoniare  sugli  esiti
della perquisizione, ferma restano  l'inutilizzabilita'  di  essa  in
quanti tale (e cioe', par di capire, del  verbale  che  ne  documenta
modalita', tempo, luoghi e risultato). 
    Da tale arresto delle sezioni unite ha tratto origine e  sviluppo
una giurisprudenza che si e'  ancorata  unicamente  alle  statuizioni
circa  la  legittimita'  ed  utilizzabilita'  a  fini  probatori  del
sequestro, rimanendo apparentemente dimentica dell'insegnamento e dei
principi affermati dalle stesse sezioni unite nella prima parte della
propria statuizione,  e  che  probabilmente  avrebbero  meritato  una
riflessione e  sviluppo  ulteriori:  come,  ad  esempio,  quella  che
volesse limitare l'utilizzabilita' probatoria del sequestro alla  res
in quanto tale, cioe' nella sua  materiale  idoneita'  a  provare  la
sussistenza del fatto (si pensi  al  rinvenimento  di  un'arma  o  di
sostanza  stupefacenti,  idonei  a  provare  i  reati  di  detenzione
illecita di tali oggetti) ed  a  fungere  da  eventuale  supporto  di
tracce di reato (impronte digitali, materiale biologico  suscettibile
di  comparazione  del  DNA)   aventi   carattere   individualizzante:
interpretazione, questa, sostenuta da questo  giudice  in  precedenti
procedimenti,  ma  non  condivisa  dai  giudici  competenti   per   i
successivi gradi, che si sono sempre rimessi alla giurisprudenza  che
si  e'  richiamata  e  che  delle  citate  sezioni  unite   coglieva,
sostanzialmente, solo  quanto  risultante  dal  dispositivo  e  dalla
massima. 
    Come si e' detto, la successiva giurisprudenza di legittimita' di
e'  monoliticamente   assestata   su   tali   esiti   interpretativi,
confermando reiteratamente la legittimita' del sequestro  conseguente
ad una perquisizione illegittima,  e  la  sua  piena  utilizzabilita'
probatoria; si citano, ad esempio, ed  in  assenza  di  pronunzie  di
segno contrario, che  lo  scrivente  magistrato  non  e'  riuscito  a
rinvenire: 
        sezione 3, ordinanza n. 3879 del 14 novembre 1997; sezione 1,
sentenza n. 2791 del 27 gennaio 1998, sezione 5, sentenza n. 6712 del
7 dicembre 1998, sezione 3, sentenza  n.  1228  del  17  marzo  2000,
sezione 4, sentenza n. 8052 del 2 giugno 2000, sezione 6, sentenza n.
3048 del 3 luglio 2000, sezione 2, sentenza n. 12393  del  10  agosto
2000, sezione 1, sentenza n. 45487 del 28 settembre 2001, sezione  1,
sentenza n. 41449 del 2 ottobre 2001, sezione 1, sentenza n. 497  del
5 dicembre 2002, sezione 5, sentenza n. 1276 del  17  dicembre  2002,
sezione 2, sentenza n. 26685 del 14 maggio 2003, sezione 2,  sentenza
n. 26683 del 14 maggio 2003, sezione 1,  sentenza  n.  18438  del  28
aprile 2006, sezione 2,  sentenza  n.  40833  del  10  ottobre  2007,
sezione 6, sentenza n. 37800 del 23 giugno 2010, sezione 1,  sentenza
n. 42010 del 28 ottobre 2010, sezione 2, sentenza  n.  31225  del  25
giugno 2014, sezione 3, sentenza  n.  19365  del  17  febbraio  2016,
sezione 2, sentenza n. 15784 del 23 dicembre 2016. 
    Alla luce di richiamati principi espressi dagli articoli 13 e  14
della Costituzione, questo giudicante dubita che  le  norme  vigenti,
per come interpretate dalla giurisprudenza  assolutamente  prevalente
(e tale da dar luogo ad un vero e  proprio  diritto  vivente),  siano
rispettose  del  dettato  costituzionale,  ed  in  particolare  degli
articoli  3,  13,  14  e  117  (con  riferimento  all'art.  8   della
Convenzione EDU) della Costituzione, nella parte in cui le  norme  di
diritto ordinario consentono l'utilizzabilita' processuale - mediante
deposizione testimoniale di chi abbia  operato  la  perquisizione  od
ispezione illegittima, o la lettura od altra forma  di  utilizzazione
del verbale di quanto risultante dalla perquisizione e dal  sequestro
- della  valenza  probatoria  degli  esiti  di  una  perquisizione  o
ispezione  e  di  quanto  eventualmente  sequestrato   in   occasione
dell'esecuzione di tali atti, allorche' tali atti  di  ricerca  della
prova siano eseguiti dalla polizia giudiziaria fuori dei casi in  cui
la legge  costituzionale  e  quella  ordinaria  le  attribuiscono  il
relativo potere. 
    L'interpretazione   maggioritaria   circa   l'irrilevanza   della
illegittimita' della perquisizione  sulla  utilizzabilita'  dei  suoi
esiti  si  risolverebbe  quindi,  del  tutto  paradossalmente,  nella
teorizzazione di un sistema giuridico che vuole inefficaci ab origine
(e  sempre  che  la  Corte   costituzionale   ne   abbia   dichiarato
l'incostituzionalita') le leggi  incostituzionali,  ma  efficacissimi
gli atti di polizia giudiziaria compiuti in  violazione  dei  diritti
costituzionali del cittadino. 
    Tale giurisprudenza, invero: 
        a) sembra operare una confusione di piani  tra  il  sequestro
inutilizzabile ed il sequestro inutile probatoriamente, posto che, di
fatto,  e  data  l'estensione  concettuale  della  nozione  di   cose
pertinenti al reato, finisce con escludere la validita' - in caso  di
perquisizione illegittima - solo del sequestro  inutile:  il  che  e'
assolutamente inconferente rispetto alle  tematiche  e  problematiche
poste dall'art. 191 del codice di procedura penale; 
        b) non considera che il sequestro non e'  una  prova,  ma  il
mezzo che serve ad assicurare al processo  la  res  che  puo'  essere
fonte di prova; 
        c) non considera che la valenza probatoria di una determinata
res e' generalmente data non dalla sola cosa in se'  (la  quale  puo'
generalmente provare la sussistenza del fatto ma non  necessariamente
chi lo abbia commesso, se  non  nel  caso  in  cui  sulla  res  siano
rinvenibili tracce biologiche, papillari o di  altro  genere  che  ne
permettano la riconducibilita' ad un determinato soggetto), ma  anche
dalle circostanze del suo rinvenimento, specie  allorche'  si  tratti
appunto del corpo del reato, essendo il suo possesso  (svelato  dalla
perquisizione) ad essere  indizio  grave  di  commissione  del  reato
stesso; 
        d) non osserva che, pertanto, cio' che sommamente rileva  non
e'  tanto  la  legittimita'  del  sequestro,  quanto   quella   della
perquisizione tramite la quale  si  e'  rinvenuta  la  res  (con  suo
successivo  sequestro),  atteso   che   e'   la   perquisizione   che
generalmente  comprova  quella  relazione  personale  tra   la   cosa
indiziante di delitto e l'autore dello stesso; 
        e) non avverte che la ratio della norma di cui  all'art.  191
del codice di procedura penale, che prevede l'inutilizzabilita' delle
prove acquisite in violazione di un divieto di legge,  e'  quella  di
offrire un valido presidio ai diritti  costituzionalmente  garantiti,
disincentivandone le violazioni  finalizzate  all'acquisizione  della
prova, rendendone inutilizzabili gli  esiti  probatori  (si  veda  ad
esempio la disciplina della inutilizzabilita'  delle  intercettazioni
illegittime ex art. 271 del codice  di  procedura  penale;  si  pensi
all'inutilizzabilita' ex art. 188 del codice di procedura  penale  di
una confessione assunta sotto tortura o sotto l'effetto di metodi che
possano influire sulle capacita' di autodeterminazione della persona,
dichiarante; si considerino  le  conseguenze  di  un'acquisizione  di
tabulati del traffico telefonico eseguita dalla  polizia  giudiziaria
in assenza di provvedimento motivato dell'autorita' giudiziaria); 
    f)  non  assegna  adeguato  valore  alla  circostanza   che   una
perquisizione domiciliare o personale, eseguita da chi non ne  ha  il
potere, e' un  caso  tipico  di  prova  vietata  dalla  legge  ed  in
violazione di diritti costituzionali della persona (cfr. articoli  13
e 14 della Costituzione; art. 8 del  CEDU),  e  la  conseguenza  deve
necessariamente essere la inutilizzabilita' dei suoi risultati  (come
previsto dall'art. 13, comma 3 della Costituzione),  conformemente  a
quella che e' la ratio dell'art. 191 del codice di  procedura  penale
che, inibendo  l'utilizzabilita'  degli  esiti  delle  prove  vietate
perche' assunte in  violazione  di  diritti  costituzionali,  intende
appunto scoraggiare la violazione di quei diritti costituzionali; 
        g) non considera che ritenere altrimenti, lasciando aperta la
possibilita' di una sorta di «sanatoria» ex post, legata  agli  esiti
della perquisizione, equivale a negare la tutela  del  cittadino  dai
possibili abusi della polizia giudiziaria: tutela assicurata  in  via
generale ed astratta dagli articoli 13 e 14  della  Costituzione,  ma
che verrebbe vanificata dall'incentivazione agli abusi  per  mancanza
di conseguenze processuali relative alla inutilizzabilita'  dei  loro
risultati; ed i drammatici fatti di Genova e  di  Bolzaneto  appaiono
esserne storica conferma e dimostrazione. 
    Quella discendente dalla citata sentenza delle sezioni  unite  n.
5021 del 27 marzo 1996 appare quindi essere un'interpretazione  dalla
scarsa tenuta logica di una simile interpretazione, idonea a  fungere
da vera e propria mina di irrazionalita', che si presta ad introdurre
trattamenti  irrispettosi  del   principio   di   eguaglianza   delle
situazioni processuali equiparabili: si pensi  alla  gia'  richiamata
giurisprudenza che riconosce la non utilizzabilita'  di  altre  prove
vietate, quali gli anonimi e le fonti confidenziali, nemmeno ai  fini
della legittimazione di una perquisizione. 
    Tali considerazioni devono invece condurre  a  ritenere  che  una
perquisizione eseguita in forza di elementi non utilizzabili, e senza
che ricorresse gia' una preesistente situazione di flagranza, sia non
solo illegittima, ma anche improduttiva di elementi  utilizzabili  ai
fini della prova in danno dell'imputato, atteso che cio' non solo  e'
imposto dagli articoli 13 e 14 della Costituzione, ma  anche  da  una
piana lettura dell'art. 191 del codice di procedura penale rispettosa
dei  principi  costituzionali,  ma  allo  stato  negata  dal  diritto
vivente,  che  quindi  si  pone   in   contrasto   con   i   principi
costituzionali di cui agli articoli 13, 14 e 3 della Costituzione. 
    Nei casi considerati ricorrerebbero infatti, a parere  di  questo
giudice, i presupposti  di  applicabilita'  della  conseguenza  della
inutilizzabilita' processuale ai sensi dell'art. 191  del  codice  di
procedura penale, in base ad una piana lettura della  norma  ed  alla
ratio della stessa, come colta al punto f) che precede;  ed  infatti,
appare evidente che la polizia giudiziaria, allorche' proceda  ad  un
atto di perquisizione fuori dei casi a lei consentiti, compia un atto
che le e' vietato - e non semplicemente un atto  irrituale  o  nullo,
come pure talora si e' sostenuto in talune pronunzie della  Corte  di
cassazione  -  atteso  che  sia  la  legge   ordinaria   che   quella
costituzionale prevedono (oltre alla riserva di legge  dettata  dagli
articoli 13 e 14  della  Costituzione)  una  riserva  del  potere  di
perquisizione all'autorita' giudiziaria, nella  delineazione  di  una
serie di garanzie a tutela della effettivita' dello stato di  diritto
(e delle liberta' individuali che questo deve garantire),  in  cui  i
poteri della polizia e degli organi amministrativi sono sottoposti al
principio di  legalita',  prevedendosi  addirittura  una  riserva  di
potere  dell'autorita'  giudiziaria,   nei   casi   che   coinvolgono
l'esercizio di diritti costituzionali fondamentali dei privati (quali
la liberta' personale e quella domiciliare, che ex art. 14,  comma  2
della Costituzione e' «aggredibile» solo «negli stessi  casi  e  modi
stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte  per  la  tutela
della liberta' personale»). 
    L'interpretazione dominante che comunque consente di «recuperare»
ed utilizzare gli  esiti  delle  perquisizioni  illegittime,  negando
l'applicabilita' dell'art. 191 del  codice  di  procedura  penale  al
sequestro del corpo del reato o di cosa pertinente al  reato,  appare
pertanto negare concreta attuazione a quanto previsto dagli  articoli
13 e 14 della Costituzione in ordine alla perdita di efficacia  della
perquisizione e delle ispezioni e dei sequestri ad esse  conseguenti,
allorche' eseguiti in violazione dei divieti; l'art. 191  del  codice
di procedura penale,  come  esistente  nel  diritto  vivente,  appare
quindi  in  contrasto  con  i  predetti  articoli  13  e   14   della
Costituzione. 
    Non e' peraltro fuori luogo osservare,  come  peraltro  da  tempo
rilevato non solo dalla dottrina, ma anche dalla Suprema  corte,  che
la  ragione  d'essere  della   disciplina   delle   inutilizzabilita'
stabilita dall'art. 191 del codice di procedura penale non  e'  tanto
di ordine etico (e cioe', il rifiuto del legislatore  di  riconoscere
valore probatorio  ad  atti  illeciti),  quanto  di  ordine  politico
costituzionale, essendosi rilevato che  l'effettivita'  della  tutela
dei valori costituzionali che piu' facilmente vengono lesi in caso di
assunzione di prova in violazione di un divieto,  riposa  nel  negare
ogni utilizzabilita' a quanto  cosi'  venga  acquisito:  atteso  che,
grazie  a  tale  divieto  di  utilizzabilita',  si  scoraggeranno   e
disincentiveranno quelle pratiche di  acquisizione  della  prova  con
modalita' illegali (e talora francamente  illecite),  che  violano  i
diritti costituzionali a cui presidio sono appunto  posti  i  divieti
rinvenibili nel codice di rito e nelle norme speciali. 
    La giurisprudenza formatasi sulla scorta della  citata  Corte  di
cassazione - sezioni unite 5021/1996 realizza,  pertanto,  anche  una
violazione dell'art.  3  della  Costituzione,  in  quanto  del  tutto
irragionevolmente ed a fronte di una palese identita' di ratio,  nega
la conseguenza dell'inutilizzabilita' di cui all'art. 191 del  codice
di procedura penale a casi del tutto  sovrapponibili  ad  altri  (per
certi  versi  addirittura  meno  gravi)  per   i   quali   la   legge
espressamente la prevede: basti pensare, ad esempio,  non  solo  alle
ipotesi  di  intercettazioni  eseguite  d'iniziativa  dalla   polizia
giudiziaria e quindi in assenza di  decreto  motivato  dell'autorita'
giudiziaria (caso sanzionato di inutilizzabilita' dall'art.  271  del
codice di procedura penale, avente la medesima  ratio  dell'art.  191
del codice di procedura penale), ma anche al  caso  dell'acquisizione
dei tabulati del traffico  telefonico  eseguito  senza  provvedimento
motivato del pubblico ministero, ipotesi che le stesse sezioni  unite
della Suprema  corte  di  cassazione  hanno  ritenuto  dar  luogo  ad
un'ipotesi di  inutilizzabilita'  della  prova  perche'  acquista  in
violazione di un divieto di legge (cfr. sezione unita sentenza n.  21
del 13 luglio 1998). 
    L'interpretazione stabilizzatasi  dell'art.  191  del  codice  di
procedura  penale,  in  tema  di  conseguenza  di  una  perquisizione
illegittima e di legittimita', per contro, del conseguente sequestro,
si risolve quindi nell'operare anche una ingiustificata disparita' di
trattamento tra  indagati  in  situazioni  del  tutto  analoghe,  con
conseguente violazione dell'art. 3 della Costituzione. 
    Sempre in tema di  violazione  dell'art.  3  della  Costituzione,
appare necessario rilevare come tale norma si atteggi  a  scrigno  in
cui e' racchiuso in germe e  riassunto  il  principio  di  necessaria
razionalita' dell'ordinamento dello stato di diritto disegnato  dalla
Costituzione;  razionalita'  che  risulta  gravemente  violata  dalla
corrente interpretazione circa la utilizzabilita' degli  esiti  delle
perquisizioni illegittime; e cio' in quanto che: 
        a) l'interpretazione maggioritaria circa l'irrilevanza  della
illegittimita' della perquisizione  sulla  utilizzabilita'  dei  suoi
esiti si risolve attualmente, in maniera del tutto paradossale, nella
teorizzazione di un sistema giuridico che vuole inefficaci ab origine
le leggi incostituzionali (argomenta ex art. 30, commi 3 e  4,  legge
n. 87/1953), e la loro efficacia sospendibile dal  giudice  ordinario
che ne ravvisi un possibile contrasto con le norme costituzionali, ma
efficacissimi, anche sotto il profilo probatorio, gli atti di polizia
giudiziaria - e non disapplicabili  ne'  discutibili  dal  Giudice  -
compiuti in violazione dei diritti costituzionali del cittadino; 
        b)  la  suddetta  interpretazione   appare   realizzare   una
negazione  radicale  dei  principi  dello  stato  di  diritto   quale
tratteggiato dalla Costituzione, racchiuso in germe nell'art. 3 della
Costituzione (come gia' si  e'  osservato),  e  piu'  in  particolare
sviluppato dall'art. 2 della  Costituzione,  in  quanto  finisce  per
risolversi nell'assenza di effettive garanzie contro  violazioni  dei
diritti  inviolabili  dell'uomo,  tra  i  quali   appare   senz'altro
rientrare quello alla liberta' personale, laddove invece il  suddetto
art.  2  della  Costituzione  impone  alla  Repubblica  non  solo  di
riconoscere tali  diritti,  ma  di  garantirli:  il  che  implica  la
necessaria adozione  di  tutte  le  cautele  necessarie  non  solo  a
reprimere, ma prima di tutto a  scoraggiare  la  violazione  di  tali
diritti;  e  la  sanzione   dell'inutilizzabilita'   probatoria   che
discenderebbe dall'art. 191 del codice  di  procedura  penale  (nella
lettura che risulterebbe dall'operazione di ortopedia  costituzionale
che questo giudicante ritiene necessaria), nel deprivare  di  effetti
processuali il risultato «probatorio» di tali violazioni, costituisce
la prima e piu' efficace forma di garanzia che uno stato  di  diritto
possa assicurare ai diritti della persona; 
        c) l'interpretazione che si avversa, inoltre, nega  lo  stato
di  diritto  quale  configurato   dall'art.   97,   comma   3   della
Costituzione, che vuole - con norma generale che  appare  applicabile
anche alle definizione dei poteri degli organi di polizia -  l'azione
dei pubblici poteri sottomessa al principio di  legalita';  se,  come
gia' si e' osservato, in uno stato di diritto, lo  Stato  ed  i  suoi
organi sono per primi vincolati al rispetto delle leggi  di  cui  pur
pretendono l'osservanza da parte dei consociati, e se  cio'  comporta
non solo l'impegno a non violare tali leggi,  ma  anche  a  garantire
l'effettivo  rispetto  dei  diritti  che  tali  leggi  prevedono   ed
attribuiscono, appare innegabile che ammettere l'efficacia - e per di
piu' nel processo penale ed in aggressione ai diritti di  liberta'  -
degli atti compiuti dai pubblici poteri in violazione di un  divieto,
appare  negare  anche  il  principio  di  cui   all'art.   97   della
Costituzione, oltre ad attribuire all'azione  illegale  degli  organi
statuali una prevalenza sui diritti  costituzionali  dei  consociati,
che appare realizzare, sotto questo  profilo,  una  ulteriore  palese
violazione dell'art. 3 della  Costituzione,  in  un  ordinamento  che
vuole centrali i diritti inviolabili della persona - e quindi  quanto
meno gli stessi sullo stesso piano di quelli  della  collettivita'  e
dello Stato - ma finisce invece per violare tale condizione  di  pari
importanza per assegnare prevalenza  all'interesse  alla  repressione
dei reati; 
        d) l'interpretazione di cui si contesta la costituzionalita',
inoltre, viola l'art. 3 della Costituzione anche perche',  del  tutto
irrazionalmente, convive con quella che riconosce l'inutilizzabilita'
di  prove  vietate  dalla  legge  solo  in  virtu'  della  loro   non
verificabilita' (scritti anonimi,  fonti  confidenziali),  mentre  la
nega a prove acquisite in diretta violazione di un divieto scaturente
dalla legge (anche costituzionale) e che, comunque, si caratterizzano
anch'esse per una ridotta verificabilita': si pensi  appunto  a  come
l'insondabilita'  degli  elementi  che  hanno   spinto   la   polizia
giudiziaria  alla  perquisizione  non  consenta  di   verificare   la
genuinita' della «catena  indiziaria»  e  di  escludere  che  possano
essere stati proprio i terzi autori della propalazione  confidenziale
o  anonima  (ma  in  ipotesi  non  risultante  neppure  dal  p.v.  di
perquisizione), o addirittura - come talora e' purtroppo  accaduto  -
le stesse Forze di polizia, ad  introdurre  nell'abitazione  la  «res
illicita» costituente supposta prova del reato; cosi' evidenziandosi,
sotto  tale  profilo,  anche  un  contrasto  con  l'art.   24   della
Costituzione, per l'evidente limite che la tesi  dell'utilizzabilita'
pone all'esplicazione del diritto di difesa, introducendo nell'ambito
delle prove utilizzabili elementi di cui  sia  di  fatto  impossibile
verificare approfonditamente la genuinita'. 
    L'interpretazione consolidatasi si pone infine in  contrasto  con
l'art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, e quindi in
contrasto con l'art. 117 della Costituzione  che  impone  allo  Stato
italiano il rispetto delle Convenzioni internazionali, in  quanto  si
risolve nel non adottare efficaci disencentivi agli abusi delle Forze
di polizia, e  di  qualsiasi  organo  dello  Stato  in  genere,  che,
limitando  la  liberta'  della  persona,  si  risolvano  in  indebite
interferenze  nella  sua  vita  privata  o  nel  suo  domicilio,  non
giustificate da oggettive esigenze di prevenzione o  repressione  dei
reati. 
    A parere di  questo  giudicante,  la  conseguenza  della  dedotta
incostituzionalita' e' anche il divieto  di  testimonianza,  per  gli
operatori di  polizia  giudiziaria,  in  ordine  al  risultato  delle
attivita'  di  ispezione,  perquisizione  e  sequestro  indebitamente
eseguite; tale divieto, invero, appare  conseguire  alla  perdita  di
ogni  efficacia  di  tali  attivita';  ammettere  tali   deposizioni,
peraltro,  equivarrebbe  a  vanificare  tale  divieto  e   la   ratio
sottostante ai divieti di utilizzabilita' di  cui  all'art.  191  del
codice di procedura penale. 
    Ne consegue che la questione e' rilevante nel  presente  giudizio
anche   laddove   si   volesse   ipotizzare,   per    ovviare    alla
inutilizzabilita' che dovrebbe essere ravvisata nelle  perquisizioni,
l'assoluta necessita'  di  procedere,  ex  art.  507  del  codice  di
procedura penale, all'ascolto dei verbalizzanti in  ordine  a  quanto
rinvenuto nell'abitazione dell'imputato ed in spazi a  lui  assegnati
all'interno  di  essa:  ed  invero,  come  osservato,   la   sanzione
dell'inutilizzabilita'  dovrebbe  investire,  in   un'interpretazione
corretta  dell'art.  191  del  codice  di  procedura  penale,   anche
l'eventuale deposizione in  ordine  agli  esiti  della  perquisizione
illegittima.